Ebbene sì. Siamo nel ventunesimo secolo e le donne sportive italiane sono considerate dilettanti nonostante allenamenti quotidiani, gare internazionali, medaglie, successi, pubblicità, e copertine di giornali. Quasi nessuna delle campionesse dello sport è classificata ufficialmente come professionista.
La carriera delle atlete sportive italiane è tutta in salita, non si salvano nemmeno le campionesse del tennis, del nuoto o della pallavolo, anche loro costrette a fare i conti con la legge 81 del 1991, che in Italia regola il professionismo sportivo e secondo la quale sono riconosciuti professionisti, solo coloro che praticano sport quali calcio, golf, pallacanestro, motociclismo, pugilato e ciclismo, e per di più uomini, tant’è che nessuna di queste discipline ha una categoria femminile.
Questo non per mancanza di numeri. Per esempio nella pallavolo, dove non esiste la categoria pro, il numero di atlete femminili, è di molto superiore a quello maschile, e la trasmissione in tv del campionato, ha riscosso molti successi in termini di share televisivo. Anche nel nuoto, dove il numero di tesserati è quasi uguale, il successo mediatico raggiunto da alcune star femminili è davvero importante (vedi Federica Pellegrini). Nella ginnastica, quasi il 90% di tesserati sono donne; nel calcio, il numero di atlete è esiguo rispetto al numero di tesserati totali, ma comunque si registra un incremento negli ultimi anni a differenza dei dilettanti maschi, che invece risultano in calo.
Il fatto di non essere professioniste, comporta pertanto diversi limiti per le donne sportive, in quanto non hanno contratti con le società, sono sprovviste di tutela sanitaria, assicurazione rischi, non hanno possibilità di versare contributi, e inoltre non hanno tutela per la maternità, anzi sono costrette a firmare delle clausole “anti-gravidanza”.
Del resto, si dice che lo sport è considerato lo specchio della società, quindi se si resta ancorati ad antiche convinzioni, risulta difficile per le donne italiane conquistare terreno per avere qualche diritto in quest’ambito. Nel resto d’Europa vi sono situazioni disomogenee, ma in alcuni stati, come Francia e Germania, la situazione è migliore, questo porta quindi alcune atlete a trasferirsi, per poter fare della propria passione un vero e proprio lavoro.
Anche per quanto riguarda i compensi, tranne per qualche grande campionessa, per le donne dilettanti, sono inferiori del 30% rispetto a quelli dei colleghi uomini. Quindi l’unico modo che hanno per tutelarsi, uomini sportivi compresi, è quello di entrare a far parte di forze dell’ordine o in un Corpo di Polizia, percependo così uno stipendio statale e uno dalla società; e questo anche per assicurarsi un posto di lavoro, una volta terminata la carriera sportiva.
Nel 2003 il Parlamento di Strasburgo chiedeva agli stati membri di assicurare alle donne pari accesso alla pratica sportiva, di sostenere lo sport femminile, di garantire da parte delle federazioni sportive nazionali gli stessi diritti in termini di reddito, supporto agli allenamenti, accesso alle competizioni, reinserimento sociale attivo al termine della carriera, rappresentanza equilibrata a tutti i livelli e per tutte le cariche decisionali, tra donne e uomini all’interno delle associazioni sportive; uno dei pochi paesi che ha preso queste raccomandazioni alla lettera è la Francia, che ha consolidato l’idea di riservare posti per le donne nel sistema dirigenziale sportivo.
Diversa la situazione in Italia, dove siamo fermi ad un elenco, di proposte, senza successo, per modificare la legge del ’91, la più recente è quella del 2014 presentata da Laura Coccia, deputata del Pd per modificare gli articoli in materia di applicazione del principio di parità dei sessi nel settore sportivo professionistico.
Tanto c’è ancora da fare, e tanto ancora si può fare, serve forse cambiare la mentalità per poter trarre dei giovamenti.