La bicicletta verde

La recente iniziativa di alcune donne musulmane, che a Milano hanno pedalato insieme per ribadire il diritto di andare in bici senza divieti e dunque l’uguaglianza tra uomo e donna, potrebbe essere stata ispirata anche da questo bellissimo film: La bicicletta verde.
Si ha uno stato d’animo combattuto dopo aver visto La bicicletta verde. Quella che potrebbe sembrare una trama relativamente semplice per un pubblico di giovanissimi (una ragazzina araba che sogna e si industria per realizzare il suo desiderio, avere una bicicletta), lascia in realtà lo spettatore in preda ad una sensazione di tenerezza e rabbia; colpito dalla freschezza di una pellicola che racconta la giovinezza più pura ma anche da una cultura che discrimina il sesso femminile, e con un grande interrogativo: com’è possibile che quest’opera possa essere stata realizzata proprio da arabi, sauditi per la precisione.

 

Fino a questo, solo qualche raro film occidentale aveva avuto il permesso di essere girato in Arabia Saudita, mentre le produzioni locali erano soprattutto documentari e programmi televisivi. Ecco perché La bicicletta verde è di per sé un evento straordinario, perché ambientato e girato tutto a Riyadh, interpretato da attrici saudite e diretto da una donna saudita: Haifaa al Mansour, 38enne quando è uscita la pellicola, laurea all’università americana del Cairo, master in regia a Sydney e sposata con un diplomatico statunitense. Facile ipotizzare come il suo sguardo e la sua libertà d’espressione siano stati influenzati, con ogni probabilità, da tutte queste esperienze internazionali.

 

La bicicletta verde racconta la storia di Wadjda (l’esordiente Waad Mohammed), ragazzina di 11-12 anni che, come tutte le coetanee, vive la sua vita in una società che distingue e separa nettamente maschi e femmine, anche all’interno del nucleo familiare. In casa però donne e ragazze si tolgono le vesti nere imposte dalla tradizione, e Wadjda è una preadolescente in jeans e All Star (da queste ultime non si separa neanche a scuola) che ascolta musica occidentale e intreccia braccialetti da vendere alle compagne.

 

Coprotagonista è la madre (la star televisiva Reem Abdullah), alle prese con un autista cui in qualche modo deve sottostare pur essendo in teoria quasi un suo dipendente (in Arabia Saudita le donne, anche se dotate di patente, non possono guidare), e con un marito che, per avere il figlio maschio che non arriva, sposa una seconda moglie.

Comunque sia, la bicicletta verde del titolo è quella che la protagonista vuole a ogni costo, per poter finalmente sfidare ad armi pari il bambino (amico/nemico del cuore) che le aveva rubato il velo e poi era scappato via in sella alla sua bicicletta, mentre lei era a piedi.

 

Wadjda però non chiede la bicicletta in regalo ai genitori (impensabile per chiunque che una femmina possa andare in bici, perché farlo, spiega la storia, potrebbe causare la “perdita della verginità”), ma si organizza da sola per racimolare i soldi che le servono. E il metodo scelto sarà ingegnoso ma soprattutto utile alla regista (e sceneggiatrice) per raccontare altri aspetti della società araba e della religione islamica.

 

In tutto il film stride di continuo l’austerità imposta dalla tradizione e dalle istituzioni (in questo caso dalla scuola) con le pulsioni irrefrenabili alla vita e alla scoperta. E così vediamo gli stratagemmi delle ragazze per organizzare incontri furtivi tra teenager, la civetteria di certe unghie smaltate di nascosto (ovviamente quelle dei piedi, meno visibili) o la malizia degli uomini al passare per strada di quella che è ancora una bambina. Ma anche le madri che in privato si stirano i capelli e si scambiano telefonate di pettegolezzi, mentre in pubblico devono indossare il velo ed evitare qualsiasi contatto. Pure l’inflessibile preside della scuola femminile (una donna) pare subire le visite di un ladro notturno che tutte insinuano non essere che l’amante.

Alla fine la bicicletta assurge a simbolo di ribellione, e uno dei messaggi che incarna è che le donne devono sostenersi e collaborare per ottenere la giusta considerazione. Senza rivelare il finale, è possibile comunque dire che la bicicletta rappresenta la libertà di azione, di movimento e dunque di consapevolezza delle donne arabe, la loro voglia di uscire allo scoperto, senza sensi di colpa e a testa alta.

La sfida di Haifaa al Mansour era quella di alimentare un dibattito tra modernità e tradizioni, in un paese dove non ci sono sale cinematografiche e dove (almeno in teoria) le donne non dovrebbero mai comparire davanti a una cinepresa; ma dove, al contempo, la gente guarda tantissimi film, anche se nel privato di casa propria.

 

La bicicletta verdie, di Haifaa al Mansour. Con Waad Mohammed, Abdullrahman al Gohani. Arabia Saudita 2012, 97’